La recente pronuncia del Consiglio di Stato (Cons. St., sez. III, 9 luglio 2012, n. 3997), è solo l’ultimo episodio, in ordine cronologico, dell’annoso contenzioso tra Enti gestori, Comuni e Aziende Sanitarie, rivalutato da un esagerato risalto dato alla nota Cass. civ., sez. I, sent. 22 marzo 2012, n. 4558, riguardo all’esatta qualificazione della prestazione erogata all’ospite ricoverato in struttura residenziale e conseguente individuazione del soggetto cui addossare la spesa.
Perché diciamo “esagerato risalto”?
La pronuncia della Cassazione ha una chiara ed evidente valenza, al punto tale che molte Aziende Sanitarie, con loro sommo disappunto, sono già state sollecitate dai Comuni al fine di rivedere esattamente se le quote sanitarie erogate relativamente ad un accoglimento residenziale siano corrette. Ma ci si riferisce a quelle previste dalla Legge e si deve rilevare come il tema in oggetto sia stato da molto tempo affrontato e disaminato dalla giurisprudenza amministrativa di prime cure e dal Consiglio di Stato.
Pertanto la pronuncia di Cassazione non ha affatto sorpreso gli studiosi della materia, costituendo semplicemente l’ennesimo episodio, stavolta spostato nell’alveo civilistico, di una saga che prosegue da, ormai decenni.
Ed ecco, puntualmente, la “ripresa del gioco” in ambito amministrativo, con la decisione del Consiglio di Stato.
Il fatto che ne è alla base è “classico”: Persona ricoverata in struttura residenziale, cui sono erogate varie prestazioni, in ordine alle quali la (allora) USL interessata e i Comuni coinvolti negano la competenza a sostenerne i costi, affermando la prima che trattasi di prestazioni assistenziali, e i secondi che trattasi di prestazioni sanitarie, o a prevalente componente sanitaria.
Poiché, nel mezzo, vi è un Ente gestore che eroga un Servizio (pubblico), e che ha comunque diritto di essere pagato (il giusto), è chiaro che questo rimpallo di competenze è sopportato fino a un certo punto, oltre il quale il medesimo Ente si determina a convenire in giudizio gli attori istituzionali, lasciando al Giudice di stabilire quale di essi sia il soggetto tenuto al pagamento.
Ciò sul rilievo che, come noto, mentre le funzioni relative all’erogazione dei servizi di assistenza e beneficienza sono di competenza dei Comuni di (ultima) residenza (v. l’art. 25 dPR n. 616/1977 e l’art. 6 co. 4 della l. n. 328/2000), restano invece a carico del servizio sanitario nazionale le attività di rilevanza sanitaria, sebbene connesse con quelle socio-assistenziali (così l’art. 26 della l. n. 833/1978 e l’art. 30 della l. n. 730/1983) .
In primo grado, l’adito TAR, disposta CTU per accertare la natura delle infermità degli Ospiti di cui si discuteva, e quindi la natura delle prestazioni loro erogate, accertò l’obbligo dei Comuni di provvedere al pagamento delle rette di degenza, condannandoli a corrispondere, ciascuno di essi, una certa somma (invero piuttosto modesta).
Avverso la sentenza (trattasi di TAR Brescia, n. 634/2004) hanno proposto distinti atti di appello, in ordine cronologico, il Comune di Parma, quello di Collecchio e lo stesso Istituto ospedaliero originario ricorrente.
I due Comuni hanno contestato la natura assistenziale delle prestazioni rese alle degenti, doglianza parzialmente condivisa dall’Ente gestore (il quale peraltro, si badi bene, non ha particolari problemi se a pagarlo è il Comune o l’ASL, purché, ovviamente, qualcuno paghi….).
Ha resistito, ovviamente l’Azienda Sanitaria, replicando diffusamente nel senso della correttezza della sentenza.
Riuniti tutti gli appelli, il Collegio ha correttamente inteso utilizzare il canone normativo fornito dall’art. 3 del dPCM 14.2.2001 ed i propri (numerosi) precedenti giurisprudenziali, per giungere alla conclusione, al lume di un orientamento giurisprudenziale consolidato, che “nel caso in cui, oltre alle prestazioni socio-assistenziali, siano erogate anche prestazioni sanitarie, l’intera attività va considerata come di rilievo sanitario e, pertanto, di competenza del sistema sanitario nazionale, senza che assuma rilievo, in contrario, la circostanza dell’impossibilità di guarigione o di miglioramento della malattia psichica nella specie trattata”.
Il che, non è di poco conto, specialmente per i Comuni, i quali hanno tutto l’interesse, e il diritto, e vien da dire anche l’obbligo, stante la possibile rilevanza in termini di danno erariale, di verificare scrupolosamente la situazione nella quale versano i propri Cittadini ricoverati in Strutture residenziali, per controllare se la ripartizione normativa tra spesa sanitaria e sociale è correttamente distribuita, eventualmente intervenendo, anche per le vie giudiziarie, in caso ciò non fosse.
Secondo il Supremo Consesso, l’assunto per il quale, data l’impossibilità di guarigione dell’ospite, le prestazioni ad esso rese hanno un rilievo solamente assistenziale, “è una tesi inesatta sul piano giuridico”.
Quest’assunto trova chiaro riscontro nel citato art. 3 del dPCM 14.2.2001, “preceduto” cronologicamente dall’art. 6 del dPCM 8.8.1995, che pone a carico del Servizio Sanitario Nazionale, e quindi delle ASL, le prestazioni sanitarie a rilevanza sociale che definisce come “prestazioni assistenziali che, erogate contestualmente ad adeguati interventi sociali, sono finalizzate alla promozione della salute, alla prevenzione, individuazione, rimozione e contenimento di esiti degenerativi o invalidanti di patologie congenite o acquisite”.
Trattasi dunque di una “nozione ampia di prestazioni sanitarie, per le quali non è richiesta una prognosi positiva in merito alla guarigione dalla malattia”.
Nel merito, stante la natura delle prestazioni erogate, il Giudice ha stabilito che il soggetto tenuto a sostenere queste spese fosse il servizio sanitario nazionale e, quindi, in definitiva l’ASL di riferimento.
Che dire? Pronuncia innovativa? Dirompente?
Diremmo proprio di no, e per quanto riportato in narrativa. Semplicemente, si applica la Legge, per quello ch’essa dispone, pur se ciò, nel contesto attuale, pare straordinario….
12 luglio 2012
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